The Banshees of Inisherin: gli spiriti dell’isola intonano un canto di insoddisfazione e appagamento

Un’isola affascinante è teatro di una storia paradossale.

Quanto mai attuale. Non banale.

Il regista (Martin McDonagh) ci offre uno spaccato di due filosofie autoevidenti in atavico contrasto tra loro, seppur legate da decenni di vicinanza fraterna.

Un’amicizia pluriennale sferzata da sinistre forze che giochino al fraintendimento e rischino di essere volano di atrocità. Cantori di tragedie dal verificarsi incerto, sono quasi personificate in immagini caricaturali che non esistono più, nonostante molto feconde nella mitologia irlandese.

La versione italiana purtroppo cambia il titolo e non rende giustizia all’intento del regista, quello di caratterizzare un’essenza infausta che nel folclore irlandese si delinei in donne legate a famiglie dai tipici nomi familiari Mac o Mc, giocando sul paradosso del proprio cognome, in omaggio alle origini parentali.

Una narrazione dall’incedere ovattato, lento come da tradizione. Un tempo del racconto ampiamente superiore a quello della storia, rispettando preferenze precedenti di McDonagh come in Tre Manifesti a Ebbing, Missouri.

Respirare incertezza è un motivo ricorrente in tutta la pellicola. Causa e conseguenza narrativa, genitore e figlio in un circolo vizioso che non si pieghi né si spezzi.

La tensione emotiva fluttua nefasta nella musica melodica irlandese.

Una melodia preparatoria battente ospita intervalli di sollievo apparente, grazie alla fotografia gigante. Una cattura paesaggistica strabiliante traduce la bellezza della natura in settima arte.

In questo saliscendi di battibecchi, ingiustizie, ignoranza e arretratezza si presenta con coraggio e classe Siobhàn, la sorella del protagonista, Pádraic Súilleabháin.

Siobhàn racchiude in sé ogni cosa non appartenga al fratello: spirito di sacrificio, cultura, un sogno per il domani. Kerry Condon ha una particolare luce negli occhi, offuscata dall’abile interpretazione del noioso Colin Farrell, una sorta di scemo del villaggio dal cuore d’oro. A parole, almeno.

Pádraic appare come un concentrato di buone maniere e amara ignoranza, vittima e carnefice di un contesto che non gli abbia mai permesso di determinarsi. Senza il coraggio di rispondere alle pressanti domande della propria coscienza, labili dubbi il cui bussare alle porte della mente non abbia mai trovato risposta.

Rispondere avrebbe significato rischiare, capire, soffrire.

La beata ignoranza ha sempre avuto il suo fascino.

Non per tutti.

La svolta della pellicola risiede proprio in questo. Il suo migliore amico, Colm Doherty, subisce un altro tipo di charme. Il proprio. Non è più disposto a perdere tempo in inezie.

È desideroso di occupare il suo tempo in modo quasi manieristicamente contabile, fatturando creativamente ogni secondo terreno in maniera avida e finalizzata. L’ultraterreno passa solamente per quell’eredità artistica che lascerà. Se mai Pádraic glielo permetterà.

Il lascito musicale diventa qui l’unico obiettivo di Colm.

La musica assurge a dimensione omnia investendo la sua essenza. Non un omaggio al quadrivio, è l’unica disciplina attraverso cui Colm senta di poter dare il proprio contributo al mondo. Quindi, egoisticamente, perpetrare l’immortalità per mezzo di note e componimenti. Una vena artistica che si nutra di leggerezza e serenità, non concependo alcun tipo di stress o distrazione, seppur di matrice affettiva.

Un bivio decisionale importante. Non per questo difficile. McDonagh sintetizza il contrasto tra la difficoltà apparente di una scelta e la semplicità della sua adozione. Ubi maior, minor cessat. Non esistono metadiscorsi, ragioni complicate, screzi da bifolchi, orgoglio malcelato.

Un uomo semplice si sveglia una mattina e decide come voglia vivere. Con coerenza e senza rimpianti.

Una vicenda dall’ambientazione temporale ante litteram fornisce spunti di riflessione quanto mai attuali oggi, in cui maschere di impegno e soddisfazione digitale nascondano timore verso giudizi ed etichette.

Pádraic è l’icona di una speciosità con tinte autoreferenziali.

Sebbene sia il prodotto di un animo benevolo e ingenuo, il buonismo qui cede il passo all’io dominante. È dalla sua soddisfazione apparente, dal suo appagamento sempliciotto che si consolida la luce negli occhi della sorella, finalmente convinta a osare di più. Di provare di più.

Di meritare di più.

Le tinte macabre cui evolve la trama consegnano un Pádraic finalmente consapevole, una Siobhàn sognante e un Colm mai pentito delle proprio scelte.

Brendan Gleeson incarna appieno il cinema di McDonagh: la potenza immaginifica della semplicità esplode in uno sguardo.

 

Lorenzo Cuzzani

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