John Wick 4: il pokerissimo non basta

Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate

 

Irreale.

Spettacolare.

Chad Stahelski è andato all-in.

John Wick si gioca il tutto per tutto.

Vuole ancora la pace. Prepara l’Armageddon.

La guerra non basta. È necessario tagliare la testa del serpente.

Che accade quando il serpente sia un’Idra con un’infinità di teste?

Si trova un motivo narrativo che permetta a John di barcamenarsi per quasi tre ore di film con un obiettivo che sembri l’unica cosa credibile di fronte alla fenomenologia dell’impossibile.

Plausibile.

Impossibile.

Discutibile.

Curioso da dire, ma il capitolo 4 si manifesta come la summa del franchise. Oltrepassa la novità del primo, estende la fotografia del secondo, complementa i tecnicismi del terzo.

Soprattutto, riesce a fornire ancor più azione di Parabellum, complici elementi narrativi coerenti con il suo predecessore.

Amplificata ancor di più l’atmosfera 80s, luci al neon orientali brillano come non mai a Osaka, colorando di retrò un’ambientazione già permeata di riferimenti ai film d’azione di Hong Kong e Tokyo. Cromature sgargianti in un buio oltranzista, la Gran Tavola non ammette deviazioni dalla propria apodissi.

Evidente il legame di influenza con diverse pellicole guida per la sceneggiatura, la regia, la produzione. Non solo il legame con The Killer (1989), come dichiarato nel 2014 dallo sceneggiatore e ideatore di John Wick, Derek Kolstad, ma anche tanta cinematografia anni ‘60 e ’70, perfino quei richiami western solo pensati per il primo e invece qui sviscerati in maniera moderna.

Paradossale.

Comica.

Molto evolute sembrano le scelte stilistiche del regista. In primo luogo attinge a modelli tarantiniani. Ben vengano stalli alla messicana, musiche melodiche che accompagnino climax ascendenti e discendenti, dialoghi che sembrino omaggiare Kill Bill Vol.1 e lascino possibili aperture. Il tutto, va detto, è da ricercare sempre in quel cinema hongkonghese anni ‘80 che il buon Quentin non ha mai negato di fare proprio.

Non mancano richiami a tradizioni molto precedenti, come la caratterizzazione volutamente ispirata a I Guerrieri della Notte di Walter Hill (1979).

Questa mescolanza di stili la rende un’opera omnia.

La Ville Lumière risplende ovattata, pulita e definita come non mai. Teatro di scontri senza fine e inseguimenti dal sapore tutto stelle e strisce. L’orgoglio yankee è tutto in quelle Ford Mustang buttate lì tra gli Champs-Élysées e l’Arco di Trionfo, dove John sembra appena uscito da Tokyo Drift mentre è intento a sparare in una sola scena tutti i colpi sparati nelle altre tre pellicole.

Il suo drifting ha qualcosa di illusorio. Cullerebbe il sonno, se non fosse per i decibel esplosi con qualunque cosa gli capiti sotto mano.

Il cast stellare aiuta molto.

Donnie Yen è a suo agio nelle arti marziali, qui modulato ampiamente in chiave comica.

Marko Zaror è sempre una buona proposta quando si tratti di villain crudeli e ingiusti.

Spicca in maniera inaspettata la performance di Scott Adkins, quasi irriconoscibile e finalmente in un ruolo di spessore in un kolossal di categoria. Una recitazione che lo avvicini più alla dimensione attoriale in senso stretto, che all’atletismo (sic!). Certo è che non si scrittura Scott per fargli solamente riempire lo schermo con ignoranza e cattive maniere. Estemporaneo, fulmineo, esce fuori tutto il suo ardire marziale.

Non sorprende la scelta di Stahelski di reclutare personalità così in alto nel mondo del cinema d’azione, specie quello marziale. Cura ognuno dei 4 film in maniera maniacale, dimostrando la pluriennale esperienza da stuntman nel settore e tirando fuori da ognuno esattamente quello che vuole: il meglio.

Qui però compie un ulteriore passo in avanti: sintetizza tutti gli elementi di cui sopra in un pathos occasionale che trascenda il banale.

John Wick si dimena nella pioggia in slow motion, i suoi capelli danzano nella lentezza emotiva della camera. Il suo viso pian piano appassisce e perde vigore che ritrova solamente quando, per l’ennesima volta, dopo l’ennesima caduta, ritrova motivazione.

C’è solo una motivazione che lo spinga a tanto: Helen. L’elemento dell’amore è il collante con l’esplosione di luci, revival e cieca ostinazione. La stessa condivisa da Caine, dotato di una vista finissima, nonostante le apparenze.

Helen è sempre presente.

Non potrebbe essere altrimenti. Causa e conseguenza delle fatiche di John, fornisce l’assist narrativo per introdurre anche il tema della famiglia, in un circolo vizioso sovrastrutturale di pegni e accordi senza il quale la struttura della trama non esisterebbe.

Una intreccio nel quale il tempo della storia si fondi con quello del racconto. Tre 3 ore di continua azione, con una sinossi esigua e una narrazione che diventi svolgimento e viceversa.

In questo turbinio di emozioni forti e  scontri perpetui trovano spazio messaggi tanto cari agli anni 80, dove amore e amicizia personifichino buona parte della settima arte. Così c’è spazio anche per l’immenso Hiroyuki Sanada, da anni caratterista orientale dentro Hollywood dopo decenni di carriera nel Sol Levante.

Shimazu Koji immedesima proprio l’amicizia e traccia la via da seguire: “l’amicizia vale poco quando è un vantaggio”.

 

Lorenzo Cuzzani

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *